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RUBRICA Il teatro visto per voi: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”... da vedere per riflettere

La stagione di prosa del Morlacchi apre coi fuochi d’artificio. Sul palcoscenico (dal 12 al 16 ottobre), “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1962), dramma dal romanzo omonimo di Ken Kesey, la cui versione cinematografica (regia di Miloš Forman, con Jack Nicholson, 1975) vinse 5 Oscar.

Il testo nasce dall’esperienza dell’autore come volontario all'interno del manicomio per veterani di Palo Alto in California. L’espressione del titolo (tratto da una filastrocca popolare) fa riferimento a questa diversità: il cuculo è notoriamente un parassita di cova, incapace perfino di custodire leproprie uova. Così come i pazienti psichiatrici sono usualmente tenuti ai margini di una società efficientista, conformista e sostanzialmente razzista.

Negli anni Cinquanta, questi pazienti venivano addirittura “curati” con l’elettrochoc, quando non lobotomizzati, come accade al protagonista. L’idea vincente di Gassman e di Maurizio de Giovanni è stata quella di traghettare il plot in diverso contesto (calare in napoletanità lo slang californiano, virare il baseball in calcio), nell’Italia del 1982, adattando nomi e circostanze, ma lasciando inalterato il portato valoriale di protesta civile e di denuncia..

Così McMurphy (qui Dario) è il ribelle il cui grado effettivo di malattia deve essere diagnosticato. Ma Dario porta tempesta – in un ambiente passivo e rassegnato - facendosi attivo portabandiera di una sofferta e spavalda rivolta contro il potere, declinato nelle forme della medicina ufficiale, dell’uso spregiudicato del farmaco, dei meccanismi repressivi, del condizionamento totale. Si pensava, infatti, che per un paziente psichiatrico non ci fosse altro da fare che rinchiuderlo, considerando che poteva costituire un rischio: per sé e per gli altri.

Molti hanno voluto giustamente vedere nel romanzo da cui è stato tratto il film un’anticipazione della contestazione sessantottina. Dunque, un malato “detenuto”, custodito, più che curato. Poiché la malattia si manifesta sempre come frattura col sociale. Musica per le orecchie di una Perugia che ha vissuto nella propria pelle le vicende dell’apertura dell’ex manicomio provinciale di Santa Margherita. Quando, il 13 maggio 1978, in Italia veniva approvata la legge 180, per la definitiva chiusura dei manicomi, a Perugia (già dal 1965) un gruppo di persone – medici, infermieri, amministratori locali e gruppi di azione politico-sindacale – aveva dato vita a un movimento; che operò nella lotta contro le istituzioni manicomiali, anticipando la legge e proponendo metodi alternativi di cura della malattia mentale.

Tutti all’altezza gli attori scelti dal regista Alessandro Gassmann: Daniele Russo, Elisabetta Valgoi, Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Antimo Casertano, Gilberto Gliozzi, Gabriele Granito, Giulia Merelli, Davide Dolores, Giacomo Buganè. Il pubblico perugino ha inteso riconoscere, in questa storia esemplare di rivolta alla sopraffazione, la vocazione pacifista del filosofo Aldo Capitini, la combattività politica di Ilvano Rasimelli, la profetica e umanissima professionalità dello psichiatra Carlo Manuali. Uno spettacolo bello in cui, insomma, Perugia intende riconoscersi. Resta da aggiungere che le videografie e la tecnica del telino, ormai consuete alle regie di Gassmann, costituiscono un riuscito esempio di tecnologia al servizio del racconto, senza cadere nell’estetismo.

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