Visti per voi: "Il libro di Giobbe" al Teatro Morlacchi, alla ricerca del senso dell’avventura esistenziale

La vita, forse, è un’interminabile partita a tennis in cui il “nemico” non è l’avversario e nemmeno la rete. Ma al centro di tante sconfitte c’è l’incapacità di misurarsi con noi stessi, rendendosi padroni, o almeno consapevoli, del proprio destino. Questo debbono aver pensato Leonardo Capuano, Alessandro Bay Rossi, Barbara Chicchiarelli, Fabrizio Croci, Andrea Sorrentino e Giuliana Vigogna, protagonisti de “Il libro di Giobbe”, spettacolo scritto a quattro mani da Emanuele Aldovrandi e Pietro Babina.

Che si mettono (e invitano il pubblico a fare  altrettanto)  alla ricerca del senso dell’avventura esistenziale, contaminando il classico linguaggio teatrale con l’apporto delle nuove tecnologie. Così che dalla Bibbia il discorso si cala sulla contemporaneità, con folli corse in auto su nastri stradali infiniti e stragi di camion che piombano come avvoltoi sulla folla. Con incubi ricorrenti, rovinose cadute in precipizi e orribili annegamenti, derivanti dal terrore di guardarsi dentro. Ce n’è abbastanza per leggervi un riferimento a un febbricitante presente. Anche una cena diventa così dramma, delirio, spinta al suicidio.

La metafora del tennis come campo di prova del sé è trasparente, ma anche pesante, se è vero che i dieci minuti iniziali sono declinati, con  snervante puntiglio, attraverso le scansioni di una bruciante sconfitta della quale non si comprende la logica, se non ricorrendo a sfatte elucubrazioni. Un connubio fra teatro parlato e astrazione in cui (come  in Antonioni) si gioca con una pallina inesistente  sparata, come un proiettile, contro il mondo sconosciuto e ostile. Una pallina irrazionale e misteriosa come il senso dell’esistenza.