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La Galleria Artemisia ospita “Blue exit”, la mostra dell'artista giapponese Chigusa Kuraishi

La Galleria Artemisia di Giuseppe Fioroni e Rita Giacchè ospita la mostra di Chigusa Kuraishi “Blue exit”, la “chiave blu”: una riuscita contaminazione fra culture

La Galleria Artemisia di Giuseppe Fioroni e Rita Giacchè ospita la mostra di Chigusa Kuraishi “Blue exit”, la “chiave blu”: una riuscita contaminazione fra culture.

L’artista giapponese, perugina d’adozione, si propone con un corpus artistico formato da tele e non solo. La presentazione – a cura di Roberto Malaspina – si è imperniata su una straordinaria prova che ha visto come performer la stessa Chigusa, con la complicità della video art di Luca Scarpellini e la musica di Jacopo Cerolini.

Il colore dominante dell’evento è, appunto, il blu oltremare, pigmento che evoca il lapislazzulo e conferisce un colore straniante. L’Inviato Cittadino lo chiama scherzosamente “blu Tippolotti”, perché si tratta di un colore vicino all’inchiostro tipografico: tinta che Mauro Tippolotti, pittore amico di Chigusa, adopera a piene mani come elemento connotativo della sua tavolozza espressiva.

La performance ha visto Chigusa, in abito virginale, comporre un monte di sabbia, delimitarlo con un cerchio (naturalmente blu) e poi scomporlo, salendoci, provocandone quasi lo spianamento. Esibizione di natura polisemica che l’artista lascia alla libera interpretazione del fruitore.

Gli stimoli sono plurali. Si pensa all’esistenziale “memento”: pulvis es et in pulverem reverteris (“Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai") di biblica memoria. O anche all’eterno farsi e disfarsi dell’umanità. In una dimensione dell’effimero che accomuna l’inizio e l’inevitabile fine delle genti e delle cose. C’è chi ha voluto cogliervi un riferimento culturale e identitario al Fujiyama o alla sismicità della terra d’origine. O anche una strenua difesa della natura, violentata dalla potenza distruttiva del cosiddetto “progresso”. Di certo rimangono la potenza suggestiva delle opere, l’originalità di quei graffi e di quei colori, l’effetto spiazzante e fascinoso che questa mostra esercita nel visitatore. A riprova del fatto che il termine “contaminazione”, più che una malattia, valga a designare arricchimento e sfida.

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