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DOSSIER Mondo del Lavoro e caro-vita, cresce in Umbria il fenomeno dei lavoratori-poveri: “il lavoro non è più un’assicurazione contro la povertà". Tutti i dati

Una nuova allarmante preoccupazione di politica sociale risulta essere la scarsa qualità del lavoro che si esplica in basse retribuzioni, scarse garanzie contributive, irregolarità delle carriere

Secondo l’ultimo rapporto Censis, sono 2,9 milioni di lavoratori poveri: 35% nella classe d’età 15-29; 47,4% in quella 30-49 anni. Il 79% appartiene alla classe operaia; il 53,3% sono uomini. Decisiva per stabilire l’appartenenza a questa condizione è il calcolo delle giornate lavorate durante l’anno. Tra gli operai ci sono 8,6 milioni persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno con una retribuzione media annua di 14.762 euro. Ci sono poi 629 mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Ma cosa si intende precisamente per “lavoratori poveri” (working poor)? L’enciclopedia Treccani così li definisce: “chi appartiene alla categoria dei lavoratori poveri, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione di trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio”.

Nella sfera del lavoro povero in Italia si possono quindi inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari che devono essere sommati al lavoro irregolare, circa 3 milioni di persone nel 2020, una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico, per un totale di circa 921mila persone. Questa situazione pone il nostro Paese ai primi posti in Europa per i livelli di working poor. Gli occupati a rischio povertà nel decennio 2010-2019 nell’intera Unione europea si sono attestati al 9,2%. Sotto la   media paesi come la Germania, all'8,0%, e la Francia, al 7,4%. In Italia siamo all’11,8%. Solo in Umbria si calcola qualcosa come 35mila lavoratori a rischio poverta per via del precariato, lavori stagionali e altre forme flessibile. Ma anche i contratti a 1200 euro al mese a causa dell'aumento del carovita e caro-energia rischia di perdere solo nel 2022 un 1/5 di potere di acquisto. Una situazione drammatica. 

“In Italia il lavoro non è più un’assicurazione sicura contro il rischio povertà. Si può essere poveri anche lavorando” - come scrivono dal centro studi della Cgil – “Ma per contrastare il fenomeno e tentare di risolvere il problema non basta affidarsi a una legge che introduca un salario minimo uguale per tutti”. A proposito di salario minimo, quale è quello in vigore attualmente in Italia? Nel gennaio 2015 il salario minimo è stato fissato a 8,50 euro l'ora (corrispondenti, per  il tempo pieno, a 1.440 euro mensili), con l'oobiettivo di rivederlo ogni due anni. Nel 2018 è stato portato a 8,84euro/l'ora, pari a 1.498€ al mese, mentre nel 2019 a 9,19 euro/l'ora. Nel 2020 si prevede di incrementarlo a 9,35€. Le cause di questo fenomeno sono state molteplici: una lunga stagnazione, il blocco dei contratti, labridotta dimensione d’impresa, i contratti pirata, la concorrenza al ribasso dei costi, il ricorso al part-time involontario, i lavori discontinui. Italia ci sono 3 milioni di precari, 2,7 milioni di part-time involontari, di cui una parte tutt’altro che esigua anche precaria, 2,3 milioni di disoccupati ufficiali, che salgono a 4 milioni se includiamo gli inattivi. Le stime al vaglio degli esperti non lasciano molti dubbi: il fenomeno dei lavoratori poveri potrebbe perfino peggiorare se non ci si appresta a gestire una trasformazione concreta che potrebbe realizzarsi partendo proprio dalla riorganizzazione generale dell’industria e della produzione, alla luce della transizione energetica e della digitalizzazione-automazione spinta.

Una nuova allarmante preoccupazione di politica sociale risulta essere la scarsa qualità del lavoro chesi esplica in basse retribuzioni, scarse garanzie contributive, irregolarità delle carriere, ecc. Queste condizioni determinano un rischio di povertà individuale significativo per i lavoratori e aumentano il rischio di povertà dell’intero nucleo familiare. Ma quali sono le cause di  situazione paradossale? Indubbiante l’evoluzione del mercato del lavoro, dove i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati - il cosiddetto Skill-Biased Technological Change, cioè la non- neutralità del cambiamento tecnologico, che tende a prediligere il lavoro qualificato rispetto a quello non qualificato - ; la delocalizzazione del lavoro nei paesi in via di sviluppo che può avere comportato una riduzione dei salari dei lavoratori meno qualificati in Europa; i fenomeni migratori che possono aver ridotto il salario dei lavoratori nativi poco qualificati. 

Ma anche i cambiamenti istituzionali rientrano certamente nelle cause del cambiamento in atto: le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata che possono aver avuto ripercussioni negative sui salari. La povertà lavorativa, infatti, è comunemente collegata a salari insufficienti mentre in realtà è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro, quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati in un anno.

Tra le regioni con più alta incidenza di “nuovi poveri” si distingue la Valle d’Aosta (61,1%,), la Campania (57,0%), il Lazio (52,9%), la Sardegna (51,5%) e il Trentino Alto Adige (50,8%). Regioni del ricco Nord assieme, dunque, ad alcune aree del Centro e del Mezzogiorno, in linea con quanto evidenziato dall’Istat nell’ultima rilevazione sulla povertà assoluta. Sul fronte delle povertà di lungo corso, le regioni con la più alta percentuale di persone seguite da 5 anni e più (che cpossiamo assimilare alle condizioni di cronicità) risultano essere: Toscana (43%), Umbria (36,4%)  Friuli Venezia Giulia (33,1%) e Abruzzo (32,8%). In Particolare in Umbria, i nuovi poveri registrati nell’anno della pandemia sono 35,4%; quelli in povertà da 1-2 anni sono il 15, 8% e quelli da 3-4 anni sono il 12,4%. Il totale dei poveri nella nostra regione, secondo l’ultimo rapporto della Caritas, si attesta a 5.244 persone. 

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