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Martedì, 23 Aprile 2024
Cronaca

Pubblicità minimetrò: se avessero voluto offendere avrebbero usato non torzone, ma "turzlo"

In quella pubblicità del Minimetro, se avessero inteso schernire, avrebbero usato non “torzone”, ma “turzlo”. Ecco perché non c’è da offendersi per l’uso di quella parola

In quella pubblicità del Minimetro, se avessero inteso schernire, avrebbero usato non “torzone”, ma “turzlo”. Senza voler polemizzare, ma in un contesto di proposta – come fondatore dell’Accademia del Dónca, presidio storico, linguistico e antropologico della peruginità – mi sento di spiegare perché non c’è da offendersi per l’uso di quella parola.

Comincio con una  precisazione addirittura banale. È noto che le parole acquisiscono senso, divenendo rivelatrici di pensieri esentimenti, in relazione a diverse varianti. Primo: il tono con cui si pronunciano. Poi: l’espressione e le modalità con le quali ci rivolgiamo all’interlocutore. Per richiamarci alla letteratura in lingua perugina, “torzone” viene detto, con rabbia e con dispetto, dall’antiquario Rufini al suo collaboratore, il lavorante Pomice, nella famosa poesia di Claudio Spinelli “L comò stejato”. I fatti: mentre trasportavano un comò per le scale, l’operaio lo lascia cadere e il comò  si scheggia. Il titolare del negozio, irritato, sapendo di fare brutta figura col cliente, esclama a Pomice: “Addio ’l comò! L’è rotto’no? Torzone…”. E qui c’è la valenza offensiva.

Al contrario, nella vita in famiglia, accade che la mamma si rivolga affettuosamente al bambino piccolo che ne ha combinata una, apostrofandolo, in forma di rimprovero amorevole, col termine “torzone” o “torzoncino”. Lo stesso vale per “cojone/cojoncino”. Altro termine lievemente offensivo, perché scherzoso, è “bégio” che viene dal latino “bestius” (“bruto, stupido”), ossia “simile a una bestia”, con riferimento all’espressione poco “umana” (nel senso di poco intelligente) assunta dallo sciocco che può avere una faccia ebete. Ma si usa “begiarella” anche nel caso di una ragazza poco seria. E “begiata” nel senso di “sciocchezza/marachella di poco conto”.

Venendo, invece, a “turzlo”, questo appartiene al perugino di “fuori le mura”, ossia rustico, “vilano”. Designa il torsolo di un frutto, una cosa da gettare o che, nel migliore dei casi, si dava da mangiare ai maiali. “Turzlo” indicava pure il torso della pannocchia, o tutolo, che si dava sempre ai porci o che si gettava nel fuoco. Riferito a persona, significa “minchione”.

Per significare a uno che è poco sveglio, si esclama “Dorme nti turzli?”. Il riferimento è alle foglie di pannocchia con le quali, in mancanza di lana, si riempivano i rumorosi materassi a saccone. Sarebbe stato da scemi riempire i materassi coi torzoli, durissimi e dunque scomodi. Si sentiva anche dire, in tono minaccioso:  “Tu sè turzlo, ma io te sturzlo!”, cioè “sei stupido, ma io ti  concio per le feste!”.

Letteralmente il verbo “sturzlà” vale “spiluccare gli acini che restano sul torso della pannocchia di mais”. Era come voler dire “ti ripulisco, ti metto a posto”. Insomma: “ti sistemo” in senso menaccino. “Turzlo”, dunque. Questa sì che è un’offesa… da lavare col sangue? Ma no: con una semplice risata.

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