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Cronaca

Quattro anni in carcere, ma per Raffaele Sollecito nessun risarcimento: ecco perchè

Le motivazioni per cui è stata respinta la richiesta di 516mila euro per ingiusta detenzione. Sollecito è stato definitivamente assolto nel 2015 dall'accusa di omicidio della studentessa Meredith Kercher

Nessun risarcimento per Raffaele Sollecito, il giovane pugliese assolto definitivamente dall'accusa di omicidio in concorso per il delitto della studentessa inglese Meredith Kercher. Dopo aver passato 4 anni della sua vita in cella, attraverso i suoi legali aveva presentato istanza di indennizzo pari a 516mila euro, già respinta dalla Corte d'Appello di Firenze e ora anche dalla Cassazione. E sì perchè la quarta sezione penale della Cassazione ha bocciato il ricorso, e per Sollecito non ci sarà nessun risarcimento per ingiusta detenzione.

Ecco la nota dello studio legale Gelsomina Cimino

È delle ultime ore la pubblicazione delle motivazioni della sentenza n. 42014/2017 resa lo scorso 28.06.2017, con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di riparazione avanzata da Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione patita durante il procedimento penale che lo aveva visto imputato per il noto omicidio di Perugia. Con sentenza resa dalla Corte di Cassazione del 27 marzo 2015, definitivamente assolto.

A giudizio della Suprema Corte, l’ordinanza della Corte Territoriale ha fornito congrua e corretta motivazione del provvedimento di rigetto, conformandosi pienamente agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.

L’introduzione nel nostro ordinamento, dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è avvenuta con il codice di procedura penale del 1988 (direttiva n. 100 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81), con il quale all’art. 314 c.p.p. è stato previsto che chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale con provvedimento cautelare iniquo possa ottenere un indennizzo, da liquidarsi in via equitativa entro il tetto massimo di € 516.456,90, secondo le forme del procedimento descritto dall’art. 315 c.p.p.

La riparazione da ingiusta detenzione cautelare trova la propria fonte anche a livello sovranazionale, in particolare con riguardo sia all’art. 5, comma 5, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione», sia all’art. 9, comma 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, secondo cui «Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo».

Con riguardo alla natura giuridica dell’istituto, è ormai acquisito anche nella giurisprudenza di legittimità che la riparazione per ingiusta detenzione non ha carattere risarcitorio, in quanto l’obbligo dello Stato non nasce da un fatto illecito, ma dalla doverosa solidarietà nei confronti della vittima di un’ingiusta detenzione cautelare.

Pertanto, il contenuto dell’equa riparazione non costituisce un risarcimento per i danni patrimoniali e morali eventualmente subiti nel corso della detenzione, ma rappresenta la corresponsione di una somma di denaro che, tenuto conto della durata della carcerazione preventiva, valga a compensare le conseguenze personali ed economiche prodotte dalla misura ingiustamente applicata.

La disposizione in commento indica i presupposti necessari per ottenere l’equa riparazione dell’ingiusta detenzione subita. Le ipotesi previste dal legislatore sono due: la prima di ingiustizia sostanziale, prevista al primo comma, e la seconda di ingiustizia formale, disciplinata al secondo.

La prima ipotesi, di cui al primo comma, prevede che «chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».

Innanzitutto, è richiesto che, all’esito del giudizio penale, l’imputato sia prosciolto con una delle formule definitive che ne sanciscono l’innocenza, ossia «perché il fatto non sussiste», «per non aver commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato». È opinione comune che anche l’assoluzione pronunciata, ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., in presenza di prove insufficienti o contradditorie, costituisca presupposto per la riparazione ex art. 314 c.p.p.

La verifica di questi presupposti, stante il tenore della disposizione, andrebbe operata ex ante, avendo riguardo agli elementi considerati al momento dell’adozione della misura (Cass. pen., Sez. IV, 28 gennaio 2014, n. 8021).

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