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Cronaca

LA STORIA "Meglio in un bordello in Umbria che schiava in fabbrica a Prato"

Una prostituta-testimone cinese parla in un'aula di Tribunale a Perugia dopo la scoperta dell'appartamento a luci rosse dove veniva sfruttata. Poche parole ma dove si intrecciano diversi tipi di sfruttamento sotto la gestione di alcuni clan cinesi

“Lavoravo in una fabbrica a Prato, non ne potevo più e ho deciso di trasferirmi a Foligno e iniziare a prostituirmi”. Inizia così il racconto della donna seduta sul tavolo dei testimoni. Una prostituta cinese che aveva accettato di vendersi piuttosto che lavorare sempre, senza diritti e senza pause in un'azienda gestita da alcuni connazionali.

Si è fatta sei mesi di carcere, prima di tornare in libertà. Prima di tornare a una vita senza lavoro e di conseguenza senza cibo. “Prendevo dai 30 ai 40 euro a prestazione. Poi consegnavo tutto il denaro alla mia amica, nonché connazionale”. La cifra veniva divisa a fine serata, ma a occuparsi del pagamento delle bollette e dell’affitto non era lei, bensì la “socia”, se così può essere definita.

“A gestire le telefonate era Elinda (nome in arte, ndr.). Procurava i clienti e io facevo quello che lei mi diceva”. Lillì, come si faceva chiamare dagli uomini che ogni giorno la incontravano nell’appartamento, era consapevole di quello che stava commettendo, ma ha preferito iniziare a vendere il proprio corpo che continuare a lavorare in un vero e proprio lager, o meglio in un laogai (nome dei campi di concentramento in Cina) sotto-forma di fabbrica senza diritti ed orari.

Il suo nuovo lavoro dura ben poco però, dopo sei mesi, qualcosa va storto e scatta il blitz dei Carabinieri nell’appartamento. Terza protagonista di questa vicenda che ha permesso alle forze dell’ordine di far chiudere l’ennesimo bordello cinese, è, infatti, la proprietaria di casa, chiamata anch’essa a testimoniare in aula oggi, 27 ottobre.

“Sono intervenuta dopo che  –ha spiegato – i vicini di casa mi hanno allertato, dicendo che nell’appartamento c’erano giri strani”. Si dirige all’abitazione, ma ad aprirle la porta è Lillì e non Elinda la donna con cui ha stipulato il contratto di locazione. “Mi ha detto di aspettare qualche giorno, perché Elinda si era recata in  Cina per problemi personali. Ho atteso un mese e alla fine, non ricevendo più alcuna risposta, ho deciso di recarmi dai Carabinieri e denunciare il tutto”. Ben presto si viene a scoprire che i documenti usati dalla meretrice sono in realtà falsi.

Adesso il compito dell’Accusa è comprendere chi fosse a capo del giro di prostituzione e riuscire a svelare il vero arcano: Lillì apparteneva alle tante sfruttate o aveva semplicemente preferito vendere il proprio corpo pur di non lavorare in una fabbrica a Prato? Una risposta che in entrambi i casi ha pur sempre un lato disumano. 

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