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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Attualità

Il caso Palamara e il CSM, le considerazioni sulla giustizia dell'Unione Giuristi Cattolici

Il magistrato Giuliano Mignini: "Quando si parla di un problema esistente in un organismo, normalmente si cerca di individuarlo bene e isolarlo per predisporre e praticare una terapia adeguata, un po’ come fa il bravo medico"

E’ di questi giorni l’"esplosione" dello scandalo che investe l’organo di autogoverno della Magistratura, uno scandalo gravissimo che sta arrecando una grave delegittimazione sull’intera magistratura italiana.

Il caso nasce dagli sviluppi delle indagini sul “caso Palamara- Lotti” e, quindi, dapprima sulla ipotesi di corruzione a carico del magistrato, poi sulla commistione di settori politici e dell’organo di autogoverno della Magistratura che, al di fuori delle sedi istituzionali e in contesti informali e “appartati”, diciamo meglio “occulti”, avrebbero cercato di condizionare le nomine dei vertici di importanti uffici giudiziari, in particolare della Procura di Roma e, in secondo luogo, anche di quella di Perugia, secondo logiche “correntizie” e/o, diciamo così “sinallagmatiche”, cioè di scambio di favori.

E, come al solito, quando si parla di “giustizia”, si scatena una immediata reazione, in settori dell’opinione pubblica, della politica e dell’avvocatura, che, più o meno scopertamente, tende ad un’immediata generalizzazione e ad annegare, spesso, la Magistratura in un cupio dissolvi, in cui si getta tutto, anche aspetti che, in tutta onestà, come direbbe Antonio Di Pietro, “non c’azzeccano nulla”. E allora, giù: “separazione delle carriere”, “dipendenza del PM dall’esecutivo”, discredito della giustizia, “toghe rosse”, “riforma della Giustizia” o altro e così via.

E’ un dato di fatto difficilmente contestabile. Quando si parla di un problema esistente in un organismo, normalmente si cerca di individuarlo bene e isolarlo per predisporre e praticare una terapia adeguata, un po’ come fa il bravo medico.

Quando, però, si verifica un inconveniente, anche grave e intollerabile, nell’ambito della Giustizia, il problema lo si dilata all’inverosimile sino a non capirne più nulla ed è la Giustizia stessa a diventare il problema.

Per fortuna, ciò non accade per la Chiesa, dove generalmente si operano le indispensabili e ovvie distinzioni. Pensiamo a cosa succederebbe se la Chiesa venisse trattata come la Giustizia di fronte ai numerosi, purtroppo, scandali che la turbano. Un sottile brivido mi corre lungo la schiena…

Qui, in questa vicenda “Palamara – Lotti”, il problema investe non tanto i singoli magistrati e i singoli uffici giudiziari, quindi l’attività giudiziaria in senso proprio (salvo per l’indagine per corruzione a carico di Palamara), “potere” diffuso in tutta l’Italia, ma l’organo di autogoverno della Magistratura che è presieduto dal Presidente della Repubblica ed è composto da 24 membri effettivi, di cui 16 togati, eletti dai magistrati e 8 “laici”, eletti dalle Camere in seduta comune. Poi ci sono due membri di diritto, oltre al Presidente e cioè il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore Generale della stessa.

Fermo restando che si è ancora all’inizio delle indagini, condotte, con professionalità e senso del dovere, dalla Procura della nostra città e compiendo un percorso antitetico rispetto alla generalizzazione (il più delle volte strumentale e interessata) e andando, invece, al cuore di questo problema che è emerso, cos’è successo?

Vi è, come s’è detto, l’ipotesi di corruzione che sarebbe stata posta in essere dal magistrato ed ex componente del CSM, per condizionare processi e sentenze e un’attività di condizionamento delle nomine di uffici giudiziari di vertice, posta in essere con l’intervento di politici, tra cui ex magistrati, in contesti informali e al di fuori delle sedi istituzionali.

Che si tratti di fatti gravissimi è fuori di qualsivoglia dubbio. Se le ipotesi formulate dovessero essere confermate, tutti i soggetti coinvolti avrebbero posto in essere comportamenti tali da minare la credibilità dell’intera magistratura, danneggiando ingiustamente la stragrande maggioranza dei magistrati che non si sognerebbero neppure di operare in questo modo.

Il giurista cattolico, specie se magistrato, come me, non può dire nulla di diverso da quello che tanti colleghi come gli stessi membri del CSM Piercamillo Davigo e Giuseppe Cascini hanno affermato a caldo, dopo l’esplosione dello scandalo.

Si tratta, sia nel caso di corruzione, che nel caso delle riunioni clandestine tra politici e magistrati o ex magistrati, di un gravissimo atto contro la Giustizia, perché far dipendere l’esito di un processo addirittura da atti di corruzione e deviare così il corso della giustizia e privilegiare, secondo accordi nell’ombra e in barba alle regole, questo o quel candidato (e correlativamente danneggiarne altri) a un importante ufficio di Procura, significa porre in essere un comportamento lesivo della virtù di Giustizia.

Oggi si parla tantissimo di Misericordia, meno di Giustizia, ma non si può prescindere dall’una o dall’altra. La Giustizia è la seconda delle virtù cardinali e modera l’appetito intellettivo, cioè la volontà.

Consiste, essenzialmente, nel “dare a ciascuno il suo”. L’avevano capito i nostri progenitori, i Romani, che, benché pagani, avevano il senso della Giustizia che loro fondavano, sin dai primordi, nei Mores maiorum, e in particolare nella Pietas. Nel processo opera come “giustizia commutativa”, che disciplina i rapporti tra soggetti. Nell’attribuzione di “ricompense” e “onori” tra i membri di una comunità, opera come “giustizia distributiva”. In questa vicenda, quindi, la Giustizia viene ferita sotto entrambi gli aspetti: la corruzione processuale ferisce la giustizia commutativa, mentre l’ingiustizia nelle nomine a uffici direttivi, la ferisce nel suo aspetto “distributivo”.

Che fare allora? Affrontare il problema, senza illudersi che la virtù si possa garantire con le leggi. Certo, però, operare delle riforme e rendere più facile il rispetto della Giustizia sotto tutti gli aspetti e più difficile la sua violazione, lo si può e lo si deve fare.

La più importante riforma è recidere in maniera assoluta le contiguità politiche dei magistrati. Politica e magistratura sono due mondi che debbono rimanere rigorosamente distinti, anche perché soggetti a “regole” radicalmente diverse: attività ampiamente “discrezionale” la prima e soggetta in particolare alla prima delle virtù cardinali, la Prudenza, oltre alle altre virtù, ovviamente e, viceversa, attività “vincolata”e “formale” la seconda, in cui l’unico ambito di discrezionalità è, ad esempio, il miglior percorso di indagine ai fini del più celere e sicuro accertamento della verità, che dev’essere l’obbiettivo dell’attività giudiziaria.

Non è questa la sede per affrontare i sistemi pratici che possano servire al raggiungimento di tali obbiettivi: sancire, a livello disciplinare, il dovere di “apoliticità” del magistrato, limitare sino ad escludere i passaggi dall’una all’altra attività e, soprattutto, evitare che il magistrato che divenga politico e magari con incarichi di governo, continui a “gestire” la corrente di provenienza, com’è purtroppo avvenuto in questa vicenda. Chi ha orecchi per intendere, intenda. Affermare il divieto di attività di “corrente” per il membro togato del CSM. Studiare forme di selezione per scrutinio per l’accesso al CSM. Creare organi periferici dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia in ripartizioni di Distretti di Corte d’Appello, a livello della Procura Generale del centro di maggiore importanza (es. Milano, per il nord, Roma per il Centro, Napoli per il Sud e le isole). Ripristinare la piena rilevanza del criterio obbiettivo dell’anzianità nella scelta dei capi degli uffici, da privilegiare su criteri apparentemente “meritocratici” ma che si prestano a scelte distorte e a favoritismi.

Molto si potrebbe ancora dire, ma i limiti di questo intervento non mi consentono di tediare ancora il lettore. Mi auguro solo che si discuta su questi argomenti, a livello di tutti gli operatori del diritto.

Giuliano Mignini Unione Giuristi Cattolici di Perugia

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