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Domenica, 28 Aprile 2024
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INVIATO CITTADINO Il dialetto non è di destra né di sinistra

A margine della proposta della Lega a Palazzo Cesaroni

Il dialetto, fino a un certo momento della nostra storia nazionale, fu strumento di comunicazione interclassista. E non è nemmeno vero che si trattasse di un modulo espressivo rozzo e approssimativo. Con buona pace dei suoi detrattori.

Se si pensa al percorso complesso e stratificato che dal latino e dalle parlate volgari ha condotto prima ai dialetti e poi alla lingua nazionale. Ossia: il dialetto toscano che ha “fatto carriera”, tanto da indurre don Lisander a “risciacquare i panni in Arno”.

Eppure, nell’attuale, straordinaria fioritura di interesse che lo circonda, anche il dialetto rischia di essere strumentalizzato.

Ci fu un periodo in cui i partiti di sinistra, specie il Pci, ne fecero una bandiera. Da qui le numerose e interessanti ricerche di stampo etno-antropologico.

In Umbria (alla fine degli anni Sessanta) vennero riscoperte alcune cerimonie teatralizzate, come il classico Segalavecchia (di solito a mezza quaresima), erroneamente caricate di significato politico, ma nate semplicemente come Atellane e feste rituali della fecondità. Che vedevano protagonisti compagnie itineranti di giovani contadini, con esibizioni sulle aie o sulle grandi cucine delle case coloniche.

Le ricerche sul campo dell’Istituto di Antropologia culturale (che allora si chiamava Etnologia), svolte dal professor Tullio Seppilli e dai suoi allievi – prima che la scomparsa degli ultimi informatori ne inibisse lo studio e la catalogazione – aprirono la strada a gruppi professionali come “La Fonte Maggiore”, ma anche a molte compagnie paesane, come quella magionese, capaci di riproporre la recita in diverse varianti.

Circolarono così tanti Segalavecchia, alcuni rigorosi, altri approssimativi e contaminati. Ma fu poco più di una moda. Il libro di Giancarlo Baronti & C. (Séga seghin’ segamo... Studi e ricerche su “Sega la vecchia” in Umbria) dice una parola definitiva sull’argomento.

Oggi, viceversa, si assiste ad un cambiamento di fronte.

La battaglia sul dialetto, fino a qualche tempo fa, veniva infatti portata avanti dalla Lega. Con finalità politiche, più che per motivazioni di carattere culturale.

Nel dialetto si cercava di intercettare il “geist” di presunte popolazioni celtico-padane e si rilanciava, proponendo addirittura l’ora di dialetto nelle scuole. O l’esame di lingua locale per i docenti che debbono operare in una certa situazione sociale, civile, linguistica e antropologica. Tanto che “La Padania”, organo ufficiale di quel partito, avvertì l’esigenza (con intento chiaramente provocatorio) di proporre articoli nelle “lingue del Nord”, con versione italiana a fianco: il che costituisce, quanto meno, un’evidente contraddizione.

Voler attribuire un “colore” o mettere il cappello sopra un fenomeno storico e culturale, oltre che linguistico, appare chiaramente di parte. Si tratta di un’appropriazione indebita di un bene non disponibile.

È pur vero che la parlata locale, in passato, fu in prevalenza usata dalle classi popolari meno scolarizzate: ma fu un errore farne una bandiera da parte della sinistra. Anche perché, nel frattempo, la situazione sociale e culturale era profondamente mutata e si rischiava di incagliarsi in una semplice operazione nostalgia.

Oggi, si assiste a una proposta che mette sotto la lente le nostre parlate locali. Il dialetto è cosa troppo seria – e da considerare con rispetto – per essere utilizzato come strumento di lotta politica.

Vedremo le posizioni dei partiti presenti a Palazzo Cesaroni. E diremo la nostra.

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