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Storie e tradizioni perugine: le origini delle fave dei morti, la preparazione e quegli ossicini dal mondo etrusco

Nell’Umbria contadina non si conoscevano quelle dolci, ma per la ricorrenza si consumavano le fave “vere”, ossia quelle raccolte nell’orto, messe ad essiccare e conservate in recipienti di coccio, di vetro o di zucca

Festa dei Santi e ricorrenza dei defunti… un legame strettissimo. Non sono, forse, tutti “morti” i santi del calendario (anche se godono della vita eterna in Paradiso)? Certo che sì. Così da noi, indifferentemente l’1 e il 2 novembre (ma ormai si trovano tutto l’anno), è consuetudine consumare le cosiddette “fave dei morti”.

Ma perché proprio le fave?

Intanto ricordiamo che nell’Umbria contadina non si conoscevano quelle dolci, ma per la ricorrenza si consumavano le fave “vere”, ossia quelle raccolte nell’orto, messe ad essiccare e conservate in recipienti di coccio, di vetro o di zucca.

In genere si preferiva consumarle fresche, magari accompagnate dal pecorino e da un bicchiere di rosso. Ma mangiare quelle essiccate era, in metafora, quasi riportarle in vita. Messe a bagno, lessate in minestra, le si vedeva recuperare volume e, da rinsecchite, tornare dolci e tenere. Insomma: una “resurrezione”. E c’è un detto che ne magnifica la bontà: “Di tutti i legumi la fava è regina / cotta la sera, scaldata la mattina”.

Spiegazioncina sulla conservazione

Non molti hanno visto le cucurbitacee a forma di bottiglia, utilizzate come contenitori di legumi. Si definiscono “lagenarie”, dal latino “lagena” che vale “bottiglia”. La chiamavano anche “a fiasco” o “zucca del pellegrino/del viandante” perché, essiccata e svuotata di polpa e semi, la lagenaria era un ottimo e robusto contenitore per alimenti. Addirittura è impermeabile anche per i liquidi. Ma, fave dell’orto a parte, le fave dolci sono un’altra cosa. E ben lo sanno i perugini golosi.

Perché la fava è considerata mezzo di comunicazione tra morti e viventi?

Di certo incide il colore dei fiori bianco-neri: il bianco per la vita e il nero per la morte. Addirittura, nell’antichità si credeva che le fave contenessero le anime dei defunti. Perciò il filosofo e matematico Pitagora, inseguito dai nemici, rinunciò a inoltrarsi e nascondersi in un campo di fave e preferì essere raggiunto e ucciso, pur di non calpestare le anime dei defunti. Filosofo credulone!
Insomma, mangiare le “fave dei morti” è un modo di celebrare un reincontro, una specie di comunione golosa coi trapassati. Addirittura, si lasciavano delle fave dolci su un piattino, pensando che i morti redivivi facessero una capatina durante la notte per poterle gustarne. E, a meno di incursioni notturne di qualche familiare goloso, le si ritrovava intatte al mattino. Il commento era: “Stanno bene, non hanno fame”, ipotizzando un Paradiso in cui ci fosse ogni “ben di Dio” (la fame era l’incubo ricorrente delle popolazioni povere).

Stinchetti, ossicini dei morti, tradizione risalente al mondo etrusco

Sono stati trovati nelle tombe etrusche gli “ossicini dei morti”, forme rituali in figura d’osso, soprattutto tibie, o “stinchi”, forme antropomorfe realizzate con dolcificante e mandorle. Come gli Egizi, anche gli Etruschi, insieme ai corredi funebri (armi per l’uomo, unguentari e beauty case per le donne) erano soliti lasciare del cibo all’interno delle necropoli. In diverse regioni d’Italia, esiste anche la variante di stinchetto fatto di meringa, ma rinnega la tradizione antica della mandorla.

La preparazione

La preparazione delle fave dolci prevede l’impasto con albume e farina di mandorle, dolci e amare. Per le amare c’è oggi qualche difficoltà a reperirle, dato che sarebbero tossiche per via del contenuto di acido prussico (cianuro). Ma esiste un concentrato che simula il sapore amarognolo. Qualche goccia e tutto è risolto. Se poi si vuole dar forma di ossi, non ci vuole molto. Il pregio maggiore delle fave dei morti è la tenerezza: quelle rinsecchite e disidratate sono scadute o di cattiva qualità. La fava di qualità si deve “sciogliere in bocca”, quasi senza masticarla.

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