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Correva l'anno di Marco Saioni | Perugia, 1860 – Il 14 settembre arrivano i bersaglieri. Poche scaramucce e Perugia è annessa al Regno d’Italia

I bersaglieri provarono a forzare la porta Santa Margherita dove cadde ucciso il capitano Tancredi Ripa di Meana. A San Domenico il sergente Ruggia entrò con due soldati e si prese la caserma, avendo intimato la resa alla truppa

La milizia svizzera salutò il primo giorno del 1860 con solenne sbornia, la città ancora inorridita per la strage d’innocenti. Vino e denaro offerti dal governo pontificio, tanto il mantenimento della truppa mercenaria era già stato scaricato sulle esangui casse comunali. Le notizie dei successi garibaldini in Sicilia arrivavano tuttavia come ondate di piena, favorendo l’insicurezza e un incontenibile slancio alla diserzione. Chi passava al nemico, chi si dava alla macchia, numerosi i suicidi. Hai voglia a infliggere legnate o affogarli di vino quando senti la terra franare sotto i piedi.

La chiesa si riorganizzava sostituendo il mansueto delegato apostolico di Perugia, Giordani, con il falco Gramiccia. E poi dai a irridere Garibaldi in ogni occasione.

Nessuna censura o storiella infamante poteva tuttavia attenuare il clima di smottamento generale. C’erano inoltre anche i giornali a pompare, specie quelli toscani, nelle cui redazioni allignavano i perugini esuli. Da pochi mesi era nato anche il quotidiano del barone del Chianti, Bettino Ricasoli, non a caso chiamato “La Nazione”. Le sue pagine ospitavano spesso resoconti del corrispondente segreto di Perugia. Ricorrenti anche quelli pruriginosi, riguardanti uomini di chiesa. Non giovò al decoro ecclesiastico la vicenda di un parroco che alloggiava due “femmine che dicevano nepoti”. Inspiegabili del resto le due gravidanze, visto che la dimora era frequentata solo da altri quattro sacerdoti. Si scrisse anche a proposito di un frate, nel convento di San Girolamo, sorpreso nell’atto di “attergare” un giovane soldato. Senza parlare di quei due preti pizzicati a patteggiare le grazie di una signora. Pistolettate da parte del marito, forse contrariato.

Frattanto si castigava chi esibiva il baffo alla Vittorio Emanuele e si dava corso al ripristino della Rocca Paolina. Rastrellamenti nelle campagne per la manodopera. Sprezzante con i perugini il capitano del genio, Forti, mentre muniva la struttura di cancelli e cannoni. Lo bersagliarono con scariche di satira ritraendolo con l’ombrellino per ripararsi dal sole di luglio.

Intanto i perugini fibrillavano al ballo vorticoso di notizie incalzanti. Gli eserciti garibaldini e piemontesi stavano per ricongiungersi strizzando in una morsa le terre pontificie, mentre un gruppo di fuoriusciti umbri capitanati da Giuseppe Danzetta lasciava la Toscana per saldare il conto con gli svizzeri.

Notizie inquietanti davano il generale Fanti ormai troppo vicino. L'intera guarnigione pontificia, piazzati i cannoni e fucilieri si acquartierò nella Rocca ma il vento recava ondate crescenti di musica che scaldava i cuori dei perugini. Tamburi e squilli di tromba annunciavano un mattino epocale, quello del 14 settembre 1860.

I bersaglieri provarono a forzare la porta Santa Margherita ma il fuoco obliquo da San Domenico era fitta grandine di piombo e qui cadde ucciso il capitano Tancredi Ripa di Meana. Cambio di strategia. Bene istradati da guide locali, i bersaglieri entrarono da porta Sant'Antonio a passo di carica e imboccando Via Vecchia si disposero in piazza. Solo il tratto rettilineo del Corso divideva ormai i due eserciti che iniziarono a scambiarsi qualche cannonata e scariche di fucile. Gli svizzeri sapevano che la partita era chiusa ma esigevano una resa onorevole. Neanche a parlarne per il generale Manfredo Fanti che mai avrebbe concesso l'onore delle armi a truppe mercenarie. Le condizioni avrebbero solo previsto alcune garanzie dopo aver lasciato il forte disarmati, consentendo solo le spade per gli ufficiali. Si temporeggia, ma alle cinque in punto il generale, tirò fuori il suo orologio e concesse meno di un’ora, dopodiché le otto postazioni di artiglieria annidiate a San Pietro avrebbero martellato la Rocca. A ultimatum scaduto i tiri precisi dei cannoni fecero il proprio dovere e fu presto resa incondizionata.

A San Domenico il sergente Ruggia entrò con due soldati e si prese la caserma, avendo intimato la resa alla truppa, poi di corsa alla Rocca per neutralizzare le mine, “imponenti e pericolose” che sapeva collocate nei sotterranei. C’era ridondanza di botti piene e furono proprio i getti di vino bianco a disattivare l’esplosivo. Si poteva già brindare alla città liberata, pronta a far parte del Regno d'Italia. Prima del brindisi, il Ruggia sequestrò, togliendolo di mano al generale Schmid, lo splendido stallone dal nero manto. Fu messo all’incanto, insieme ad altri destrieri, considerati bottino di guerra. All’indomito sergente la città avrebbe dedicato una lapide, posta nel chiostro di San Domenico nel giugno 1905.

Per formalizzare la resa fu scelto il convento di San Pietro, presenti i generali De Sonnaz, Fanti e due colonnelli della guarnigione pontificia. Fu richiesto un locale per ospitare le delegazioni, oltre a disporre del necessario per redigere gli accordi. Non c’erano spazi adatti né altro che potesse servire allo scopo, rispose ostile il frate custode. Allora che informasse i superiori, replicò Fanti, poiché qualora fosse troppo difficile esaudire la richiesta, un battaglione sarebbe arrivato per il necessario aiuto. Non successe, essendo la sala miracolosamente apparsa, guarnita di tavolo, sedie, penna e calamaio. Era il 14 settembre 1860.

La presa di Perugia il 14 settembre del 1860

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