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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Coronavirus, l'intervento: il servizio sanitario nazionale di fronte all’emergenza Covid-19

Pubblichiamo l'intervento di Alessandra Pioggia, professore ordinario di diritto amministrativo del Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Perugia

Pubblichiamo l'intervento di Alessandra Pioggia, professore ordinario di diritto amministrativo del Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Perugia. 

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Non è facile in un momento come questo parlare del nostro sistema sanitario nazionale. E’ indubbiamente l’amministrazione maggiormente coinvolta dalla tragica emergenza nella quale il nostro Paese è precipitato insieme al resto del pianeta. Sta dando straordinarie prove e, al tempo stesso, rischia in ogni momento di cadere sotto il peso di una richiesta di prestazioni che solo qualche mese fa sarebbe stata inimmaginabile.

Forse l’unico modo di affrontare il tema è distinguere fra un prima, un durante e un dopo.

Prima: una sanità impoverita e diseguale.

La sanità pubblica si è presentata impoverita di fronte alla sfida dell’epidemia di Covid-19, perlomeno sotto due profili. Quello qualitativo, effetto di una aziendalizzazione che ha immiserito la cultura del servizio pubblico, e quello quantitativo, conseguenza di un decennio di politiche di contenimento della spesa pubblica, che hanno drasticamente ridotto l’incremento annuale del Fondo sanitario nazionale.

La seconda riforma sanitaria degli anni ’90 è stata attuata in una atmosfera culturale di grande entusiasmo per le modalità operative e organizzative tipiche dell’impresa privata. Le aziende sanitarie sono state ripensate come apparati di produzione, da mettere in concorrenza fra loro e con i privati accreditati. La dimensione economica della spesa è divenuta assorbente e i servizi per la salute si sono trasformati in questioni da dibattere in sede tecnica e non più collettiva e partecipata.

Se tutto questo ha impoverito culturalmente il servizio pubblico, nel secondo decennio di questo secolo l’impoverimento è divenuto anche quantitativo a causa dei drammatici tagli di spesa che hanno investito la sanità. Così il numero dei posti letto pro capite negli ospedali è calato di circa il 30 per cento, collocandosi ben al di sotto della media europea e questo vale anche per le terapie intensive, nelle quali all’inizio dell’epidemia in Italia erano presenti all’incirca 5.100 posti letto, con una disponibilità che è fra le più basse d’Europa. Un’altra spesa vittima di importanti tagli è stata quella per il personale, che ha perso 8.000 medici e più di 13 mila infermieri.

Ma la sanità che si è trovata ad affrontare l’epidemia era ed è anche una sanità fortemente diseguale. Una regionalizzazione non adeguatamente governata ha divaricato progressivamente il modo di garantire la salute nelle diverse realtà del nostro territorio nazionale. A fare la differenza non è solo, come i più ritengono, la capacità produttiva dei diversi sistemi regionali, ma anche e forse soprattutto, il modo di intendere il servizio pubblico e la sua funzione.

Durante: fragilità, ma anche punti di forza

La povertà degli investimenti economici e culturali sulla dimensione collettiva e sociale della salute spiega forse perché il nostro Paese non sia stato in grado di prevedere più efficacemente ciò che stava accadendo già dal mese di gennaio. I dati raccolti dalla sanità pubblica sono essenzialmente dati che riguardano le prestazioni e la loro dimensione economica: i costi, il numero di servizi erogati, i tempi, i posti letto occupati e così via. Né a livello nazionale, né a livello regionale ci si è allertati per l’insolito aumento dei casi di polmonite, anche perché un dato del genere non è oggetto di monitoraggio.

Anche la questione dei diversi approcci regionali al servizio è una delle ragioni che, soprattutto in una prima fase, hanno reso più lenta e incerta l’azione nazionale. Forse la diversa organizzazione regionale ha inciso persino sulla dimensione e sulle conseguenze del contagio.

Ma, accanto a questi punti di debolezza, non si può però non considerare come, al netto dell’impoverimento della sanità e delle diseguaglianze, la natura pubblica del sistema sanitario nazionale e i principi sui quali si fonda, in un momento di drammatica difficoltà come quello in corso, siano stati determinanti sulle scelte del Paese.

Prima fra tutte quella del contenimento del contagio in luogo dell’approccio “naturale” con limitazione dei danni. In Italia si è scelto subito, senza, direi, esitazioni, di assumere misure che proteggessero in maniera uniforme tutta la popolazione. Una scelta che ci testimonia un approccio alla salute come diritto fondamentale di ogni individuo, anche quello più fragile e magari meno produttivo, oltre che come interesse della collettività.

Ma c’è di più, il fatto che le strutture coinvolte nell’assistenza siano pubbliche ha consentito scelte organizzative che hanno potuto contare sull’insieme delle risorse sanitarie del Paese e, al tempo stesso, ha permesso che nuovi tempestivi investimenti rafforzassero l’intero sistema nazionale: si pensi, ad esempio, all’operazione di incremento del numero dei posti letto in terapia intensiva, che ha coinvolto contemporaneamente l’intero territorio nazionale, o ancora all’immediata conversione delle modalità operative dei punti di pronto soccorso alle esigenze dell’emergenza epidemica.

Sempre alla natura pubblica del sistema è da riconoscere il merito di aver creato nei professionisti una cultura di servizio alla collettività che nel momento del bisogno ha attivato risorse individuali di dedizione e sacrifico al bene comune davvero ammirevoli. Nello straordinario impegno di medici e operatori del sistema sanitario nazionale c’è la testimonianza di un approccio professionale di servizio che discende dal lavorare nel pubblico e per il pubblico che non dobbiamo sottovalutare. Anche questa è una risorsa del sistema, anzi una delle principali.

Dopo: cosa dovremo fare

Quando l’emergenza sarà passata, dovremo correggere i limiti e ripartire dai nostri punti di forza e, prima di ogni altra cosa, tornare ad investire sul servizio sanitario in termini economici, professionali, organizzativi e anche culturali. I servizi per la salute costituiscono un patrimonio collettivo, oggetto di scelte che non possono essere solo economico-aziendali, ma che, nel doveroso rispetto della sostenibilità della spesa, debbono saper interpretare la natura pubblica del servizio, valorizzandone la valenza sociale, culturale e persino simbolica. Solo in questo modo il sistema sanitario pubblico tornerà ad essere una forma di produzione collettiva di benessere sociale (dalla società verso la società) fuori dal mercato, in cui cura, riabilitazione e prevenzione si saldano con la partecipazione, in una idea di collettività che, insieme alla salute, promuove conoscenza, informazione e controllo democratico sui servizi.

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