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20 GIUGNO 1859 | Il racconto, con testimonianze inedite, degli eroi perugini: "I martiri nostri son tutti risorti"

"Il 14 giugno 1859 una delegazione formata dal Guardabassi, Nicola Danzetta e Zeffirino Faina, in testa ad un vortice di tricolori e grida di dimostranti, si avviava verso il palazzo del Delegato pontificio"

Marco Saioni ha raccontato magistralmente quel 20 giugno 1859, supportata da testimonianze inedite, raccolte da Giuseppe Bellucci a 40 anni dai fatti, intervistando alcuni protagonisti di quei giorni. Una storia drammatica ed eroica allo stesso tempo proposta in forma narrativa per immortalare la sequenza di vicende occorse alla città nel suo percorso verso l'affrancamento dal dominio pontificio. Buona Lettura.

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di Marco Saioni

Dalle vie più cupe della città, echeggiavano le note di una canzone, quasi un inno. Fu composto nel 1848 sull’onda dei moti rivoluzionari. Celebri i versi, dal tono marziale con retrogusto zombie: “Si scopron le tombe, si levano i morti, I martiri nostri son tutti risorti…” Ma molti perugini e umbri non si limitavano a cantare. In tanti raggiunsero Torino, dove Garibaldi organizzava i Cacciatori delle Alpi. Altra musica, stavolta quella struggente della partenza: “Addio, mia bella, addio, l'armata se ne va; se non partissi anch'io sarebbe una viltà”. Il movimento aveva ormai anche la sua colonna sonora.

Benché isolata dal resto del mondo, sotto il giogo pontificio da secoli, Perugia annusava il vento che spazzava la penisola. Del resto il farmacista Annibale Vecchi, attorno al quale si era coagulato un consistente numero di mazziniani, intratteneva rapporti diretti con il fondatore della “Giovine Italia”. Il clima politico che caratterizzò le ferventi fasi del Risorgimento alimentò le insurrezioni dei territori sottomessi alla Santa Sede. Analogamente ad altre città, anche i liberali perugini, guidati da Francesco Guardabassi, ritennero così opportuno che anche la principale città dell’Umbria si disponesse a fare altrettanto. Il 14 giugno 1859 una delegazione formata dal Guardabassi, Nicola Danzetta e Zeffirino
Faina, in testa ad un vortice di tricolori e grida di dimostranti, si avviava verso il palazzo del Delegato pontificio.

Fu proprio Antonio Luschi, in una testimonianza raccolta da Giuseppe Bellucci, quarant’anni dopo quei fatti, a ricordare le parole di Danzetta: “Anch’io mi trovai fra costoro, perché la mattina di quel giorno, incontrandomi con Giuseppe Danzetta alla Farmacia Tei, mi disse: trovati a mezzogiorno sotto il palazzo delegatizio e tieni pronto il fucile”. Non si sparò un colpo. Fu sufficiente che la delegazione richiedesse ai ministri papali la loro abdicazione, in nome del popolo insorgente, cosa che facilmente ottennero. La sera del 14 giugno 1859 Perugia aveva già il suo governo provvisorio e un proclama affisso che spiegava le ragioni del ribaltone. Certamente il Governo pontificio non poteva tollerare un simile atto di ribellione. Ipotesi inquietanti sull’imminente arrivo di truppe in soccorso del deposto governo erano pertanto ritenute piuttosto realistiche.

Il tempo non giocava a favore degli insorti, ben consapevoli che la difesa della città affidata a fucili per i tordi, e non si era in guerra con loro, sarebbe stata cosa dura. Il Governo provvisorio, dal canto suo, si dava da fare inviando Nicola Danzetta da Cavour e compulsando il telegrafo. Urgente invio di rinforzi, stop. Ma da Torino solo elogi e incoraggiamenti. Da Arezzo, forse, dei fucili. Perugia doveva cavarsela da sola. Tutti quelli in grado di sparare con qualcosa erano arruolati. Si presentarono in seicento. Una truppa sgangherata e attempata, mitigata da qualche decina di adolescenti. Notte lunga quella di domenica 19 giugno, specialmente per armaioli e fabbri. Quei cinquecento fucili promessi erano infatti arrivati, ma pochi avrebbero sparato senza quell’affaccendarsi su molle, percussori e otturatori. “Armi e munizioni furono stipati nei magazzini in via della Gabbia e nel negozio di cappelleria del Pagnacca.”

Frattanto si erigevano barricate. I frati di San Pietro misero insieme dei tavoloni a protezione della porta di San Costanzo. A guarnire l’accesso di San Girolamo ci pensarono diciotto olmi, sistemati a barriera. Dagli spalti del Frontone le canne dei fucili scrutavano l’area sottostante coltivata a grano. Da quella direzione, con ogni probabilità, sarebbero arrivati, sotto una pioggia sferzante che almeno avrebbe rallentato l’artiglieria. Ore tre pomeridiane. La pioggia incessante spargeva odore di lago. Silenzio di voci e chiasso di rondini volteggianti sotto un cielo di piombo. Uomini imbevuti, dita aggrappate ai grilletti, occhi incollati in puntamento.

Romeo Bartoccioli, capomastro, sguardo incorniciato da zampilli di rughe, tormentava il cane del suo fucile. Un ferro datato da maneggiare con pazienza, ma ancora efficace. Che si facesse avanti la soldataglia mercenaria. Quei cento metri tra lui e loro sarebbero stati un calvario, almeno finché avesse avuto piombo. Fu un sospiro di vento a recare il rullo di tamburi. Poi il rosso di centinaia di calzoni spavaldi provenienti da Ponte S.Giovanni invase la via acclive. Erano tanti. Troppi. Ma l’orgoglio perugino prevalse. La prima scarica procurò un vuoto nella prima linea. Grida di feriti e scompiglio. Fu un rapido appiattirsi a terra. La spavalderia virò subito in cautela. Molti si fecero scudo della chiesa di S.Costanzo, altri s’immersero, ventre a terra, tra le spighe ingiallite. Quella promessa di pane dicono si nutrì di sangue.

Eugenio Sabatini, affilato come un barracuda, centellinava colpi ben mirati col suo Stutzen, un’arma di precisione austriaca. Certi sbuffi cremisi che talvolta evaporavano sulle le teste dei nemici certificavano l’efficacia dei colpi. Anche Nino Vitiani dispensava piombo col suo schioppo da caccia caricato a palla. Benché la canna liscia non concedesse accurate traiettorie, furono in tanti a cadere. La controffensiva non tardò. Dispostisi in un ampio ventaglio, gli assedianti iniziarono la manovra di accerchiamento. Il sibilo delle palle non turbava più di tanto i patrioti. Ma la situazione mutò alla notizia che il nemico era penetrato all’interno dell’abbazia. La ritirata e l’estrema difesa al riparo della porta San Pietro fu l’ultima, disperata carta da giocare. Scambio feroce di colpi con gli svizzeri, taluni posizionati sul campanile, da dove bersagliavano la posizione. Schegge di legno e chiodi schizzavano dalla porta, tormentata dal piombo. “Romeo era una furia e per tirare usciva in posizione sdraiata e si ritirava per ricaricare, solo quando non gli porgevano altri fucili”. 

La maschera del Turreno, Rosi, detto Cucchiaroli, indicava a Luschi i bersagli meno visibili. “Sta attento che c’è uno Svizzero che viene in mezzo alla strada a tirare e poi ritorna nel vicolo. Luschi stette in attesa e quando comparì lo Svizzero, gli tirò e vide cadere in mezzo alla strada, da cui non si rimosse.” Sebbene al riparo della porta, Rosi fu raggiunto da una palla all’inguine, fuoriuscita dal legno. Fu il chirurgo Blasi a salvarlo. Altri difensori caddero feriti o uccisi. Bisognava arretrare verso il centro. Lingue fiammeggianti sventolavano, frattanto, da molte finestre del borgo. La battaglia era finita. La città subì la feroce rappresaglia, nota come strage di Perugia, con ventisei morti tra i civili inermi. Una risposta a quei i roghi allestiti fuori città che sembra avessero bruciato decine e decine di cadaveri dai calzoni rossi. Tredici mesi. Questo il tempo che separò l’eroica impresa dei patrioti perugini dall’ingresso dei bersaglieri, il 14 settembre 1860.

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